Prima del viaggio: le tappe e i paletti
Inizia oggi la mia inchiesta alla ricerca di conversazioni con italiani che minimizzano, ridicolizzano, rifiutano i valori della parità di genere: condivido qui le prime tappe e metto qualche paletto
Cerco gli italiani per cui le battute sono sempre innocenti […] che storcono il naso quando si dice che declinare i nomi di professione al femminile è un’azione concreta per dare visibilità alle donne nel mondo del lavoro […] che criticano le iniziative di contrasto alle disuguaglianze perché a detta loro verrebbero meno al concetto di merito […] che credono che sessismo, misoginia e violenze contro le donne siano comportamenti messi in atto da una minoranza di “mostri” con intenzioni esplicitamente maliziose, invece di una condizione in cui la società intera si trova e di una cultura a cui la società intera partecipa.
Da oggi, per le prossime sei settimane, viaggerò per l’Italia alla ricerca di conversazioni alla pari con italiani che, per un motivo o per l’altro — lo scoprirò lungo la strada — nel dibattito sulla parità di genere e il rispetto della dignità delle donne si collocano sul lato “state esagerando, ci sono problemi più importanti”.
Cerco gli italiani — uomini e donne — per cui le battute sono sempre innocenti. Gli italiani che storcono il naso quando si dice che declinare i nomi di professione al femminile è un’azione concreta per dare visibilità alle donne nel mondo del lavoro. Gli italiani che criticano le iniziative di contrasto alle disuguaglianze perché a detta loro verrebbero meno al concetto di merito. Gli italiani che credono che sessismo, misoginia e violenze contro le donne siano comportamenti messi in atto da una minoranza di “mostri” con intenzioni esplicitamente maliziose, invece di una condizione in cui la società intera si trova e di una cultura a cui la società intera partecipa, spesso senza che i singoli individui se ne rendano conto – una cultura alla quale l’Italia continuerà a partecipare, finché non riusciamo a creare insieme una coscienza collettiva sui valori di genere.
Di fronte a questi italiani voglio mettermi in posizione di ascolto vero, intrattenendo conversazioni principalmente informali e, soprattutto, alla pari, ovvero prive di giudizio, senza cercare di convincerli della “giustizia” dei valori in cui credo. Tramite queste chiacchierate voglio capire che cosa, nella loro storia umana, li ha portati a pensare in un certo modo e che cosa, dalla loro posizione umana, può facilitare un confronto produttivo con chi invece la pensa come me — un confronto che potrebbe aiutare a trovare la strada verso una coscienza collettiva sui valori di genere.
L’avventura inizia oggi, lunedì 15 gennaio, dal bar a pochi passi dalla casa di famiglia in cui sono cresciuta a Bologna, dove vivono i miei (per chi si è appena sintonizzato, di norma io vivo negli Stati Uniti). Si chiama Bar Rossoblù, come tanti dalle nostre parti, ed è un baretto senza pretese (credo che “squallido” sia uscito spesso dalla bocca di mia madre, per descriverlo) in una traversa residenziale di via Mazzini, appena fuori porta, a quattro fermate di 27 dalle Due Torri. Il Rossoblù è lì da sempre, con le sue due ampie vetrine sormontate da tendoni rossi dalla dubbia utilità, visto il viale alberato, e dall’insegna bianca su cui campeggia il nome dell’esercizio commerciale nei tradizionali colori petroniani che l’hanno battezzato. Non si è mai mosso da lì, il Rossoblù, sopravvissuto — insieme alle sedie di plastica da giardino e le bandiere del Bologna F.C. 1909 — al succedersi di decine di altri piccoli commercianti circostanti che, forse, non hanno resistito tanto quanto lui per mancanza della stessa clientela fedele. Perché al Bar Rossoblù, ogni giorno da che ho memoria, si riuniscono manipoli di uomini a bere, fumare, guardare le partite di calcio e buttare denaro nelle slot machine. Oziano, cincischiano e, se sei una donna, non mancano di darti una bella slumata — uno sguardo interessato, in bolognese — mentre di fretta oltrepassi il bar cercando di evitare intromissioni non richieste.
In altre parole, il Bar Rossoblù pullula di uomini che aspettano solo di fare una bella chiacchierata con una giovane scrittrice bolognese sui valori di genere in Italia :-)
La partenza dal Rossoblù è simbolica, perché è il bar sotto casa (benché la mia famiglia non lo abbia mai frequentato). Tra sei settimane, a conclusione della mia inchiesta, è qui che intendo tornare per chiudere il cerchio. Cosa sarà successo e magari cambiato, dentro di me, durante questo periodo? Cosa avrò visto, imparato, compreso? E, soprattutto, come trasformerà la maniera in cui converserò e mi relazionerò con gli avventori del Rossoblù, rispetto a oggi?
Al Rossoblù mi accompagnerà mia cugina Cecilia (in arte Lecicia Sorri, cantautrice engagée tutta da scoprire). Ho chiesto a Cecilia di aiutarmi oggi — e lei ha generosamente accettato — perché nonostante io sia una giornalista dalla parlantina vivace, ho comunque timore di rompere il ghiaccio della mia inchiesta (senza contare che al Rossoblù sarei donna giovane in mezzo a tanti uomini attempati, e preferirei non doverlo dire, ma… non si sa mai). Cecilia, con la sua verve, la sua intelligenza, il suo umorismo, la sua capacità di buttarsi nelle avventure con genuina curiosità e coraggio, è la persona giusta per essere al mio fianco. Dove io provo vergogna, Cecilia sa lanciarsi, senza paura.
Insieme oggi pomeriggio entreremo al Rossoblù, ordineremo un aperitivo e intavoleremo conversazioni con gli altri avventori. Visto che si tratta di un’inchiesta giornalistica che ha come fine la pubblicazione, sarò trasparente sulla natura delle mie intenzioni e il motivo delle mie domande. Dopodiché ci recheremo a un altro Bar Rossoblù — ve l’avevo detto, che a noi bolognesi ci piace chiamare i bar così1 — quello vicino a casa di Cecilia in zona Fossolo, e ripeteremo lo stesso esercizio. Perché sì, quello di oggi è un esperimento, come lo è quello di domani, come lo è la mia inchiesta intera.
A proposito di domani: per la seconda tappa della mia inchiesta, mi recherò alla Biblioteca delle donne di Bologna. Qui incontrerò Annamaria Tagliavini, che ne è stata direttrice per più di vent’anni, e Anna Pramstrahler, la direttrice attuale, per una visita interattiva alla biblioteca. Le intervisterò sul ruolo di questa istituzione nella trasmissione dei valori del femminismo e nella creazione di una coscienza collettiva a essi allineata. Dopo la visita, mi apposterò fuori dalla biblioteca — che si trova ai margini del centro storico, in via del Piombo, vicino alla casa di Giosuè Carducci — per condurre interviste di strada, focalizzandomi in particolare sul tema del linguaggio inclusivo. A ogni tappa, infatti, ho assegnato un tema principale da affrontare con i miei intervistati. Il tema è legato al luogo: vicino a una biblioteca, parliamo di linguaggio.
Nel piccolo paese delle Marche che ha eletto una delle prime due donne sindache in Italia, invece, il tema sarà l’importanza di eleggere donne in politica e assumerle in posizioni di rilievo nelle aziende. Il paese è Massa Fermana, dove mi recherò da mercoledì a venerdì di questa settimana per la terza tappa dell’inchiesta. La sindaca si chiamava Ada Natali ed è stata eletta nel 1946, alle elezioni che finalmente hanno sancito il suffragio attivo e passivo per le donne. Vivete in zona o conoscete persone o realtà in questa zona che potrebbero interessarmi? Fatemelo sapere, assolutamente!
Per ora mi fermo qui. Se avete consigli, osservazioni, feedback da darmi sull’inchiesta, sono tutta orecchi! Rispondete a questa email, se la newsletter vi è arrivata via email. Se invece la state leggendo sull’app di Substack (come vi consiglio), potete lasciare un commento. Mi trovate e potete scrivermi anche su Instagram, dove condividerò contenuti al volo durante il viaggio.
Vi ricordo che tutti i miei contenuti su Substack sono, per il momento, fruibili gratuitamente. Se voleste sottoscrivere un abbonamento a pagamento, vi ringrazio della fiducia e vi comunico che i proventi saranno utilizzati per il viaggio e l’inchiesta, le cui spese sto sostenendo personalmente.
P.S. Se avete voglia di continuare a leggere, qui sotto elenco qualche importante paletto che voglio fissare prima di partire per il viaggio-inchiesta. Utilizzo “paletto” come traduzione approssimata dell’inglese boundary, che purtroppo non ha un equivalente della stessa potenza semantica in italiano. I miei boundaries, o paletti, sono una serie di linee guida, se vogliamo, che definiscono i termini entro i quali (letteralmente, “boundary” significa confine) si svolgerà la mia pratica di scrittura e condivisione delle prossime settimane. I paletti sono per me, innanzitutto, ma regolano anche le mie intenzioni e le mie preferenze riguardo al rapporto con chi è intorno a me. Li metto quindi a vostra disposizione, se volete scoprire un po’ di più non solo di cosa accade dietro le quinte di questo progetto, ma anche dentro di me.
Paletti e regole del gioco e della condivisione:
No al perfezionismo. Scrivo per passione e da ora in poi, come spero, anche per mestiere. E sono una perfezionista. Ciò significa che ogni volta che mi siedo di fronte a una pagina bianca sento di dover produrre parole eccezionali all’interno della struttura sintattica perfetta formulando ragionamenti impeccabili tramite periodi che scivolano via che è un piacere. La verità è che di frasi così ne scrivi una al trimestre, se ti va bene. Se voglio scrivere dispacci frequenti e regolari sulla mia inchiesta, non ci sarà semplicemente tempo per un lavoro certosino di rifinitura. E va bene così. Se ciò che scrivo deve piacere a chi lo legge — sia per cosa scrivo, che per come lo scrivo — succederà da sé, esprimendo me stessa anche nelle imperfezioni.
Sì al personale. Al centro della mia inchiesta c’è la volontà di far emergere e documentare la voce di un certo tipo di italiani che oppongono resistenza a un certo tipo di dibattiti e valori legati alla parità di genere. Sarà quindi questa la voce che sentirete di più nei miei scritti — insieme alla mia. La natura del mio progetto implica che mi metta io stessa in una posizione di vulnerabilità, in prima persona, facendo parlare anche i miei occhi e le mie orecchie. Il che non significa che io voglia parlare di me e che sia io il soggetto della mia inchiesta, in maniera egocentrica e autocelebrativa; significa che il racconto del rapporto che creerò con i miei intervistati sarà mediato dal filtro della mia esperienza. Diversi anni fa, quando facevo la giornalista a Chicago, mentre chiacchieravamo di questioni personali una collega mi disse: Spero che non sia un problema se ti faccio un esempio dalla mia esperienza personale, per rispondere a ciò che tu mi stai dicendo sulla tua vita; ma è attraverso la mia esperienza personale che io capisco il mondo. Solo ricollegandomi alla mia esperienza posso darti un consiglio sulla tua. Questa dichiarazione mi ha folgorato. È attraverso la mia esperienza personale che io capisco il mondo. Capire il mondo significa poterlo spiegare; poter spiegare significa poter aiutare, contribuire, costruire qualcosa di nuovo a partire da una posizione di comprensione. Sembra che io stia parlando di me, ma in realtà parto da me — dall’unico modo che ho per capire il mondo — per parlare di altro e di altri. Spero quindi che mi perdonerete se utilizzerò spesso la prima persona nei miei scritti. Non è un parlare di me fine a se stesso: semplicemente, è attraverso la prima persona che io capisco il mondo.
Condividere per raccontare storie. Qualche giorno fa io e una cara amica (che ringrazio di cuore per il grande sostegno e l’ispirazione che sta dando a questo progetto) ci siamo interrogate su cosa ci spinge a condividere sui social. Perché sentiamo il bisogno di farlo? Abbiamo parlato di come sia stato Facebook a introdurre nelle nostre vite gesti e azioni che sono diventati abitudini quotidiane, per cui di quello che ci accade nella realtà dobbiamo rendere partecipi i nostri amici nel virtuale, spesso senza un vero motivo, uno scopo, un’intenzione precisa. Ho quindi rivolto la domanda a me stessa: perché condivido sui social? Lo faccio come gesto abitudinario, spontaneo e privo di intenzione — e pertanto privo di senso vero — oppure c’è dell’altro? Ho scoperto che c’è dell’altro: è la volontà, il bisogno, il piacere di raccontare storie. Se devo attribuire un’intenzione al gesto di condividere sui social, nella mia esperienza è proprio il desiderio di raccontare una storia, nel senso più figurato del termine: basta un’immagine accompagnata dalla giusta emoji per farlo. Ecco, la mia condivisione sui social media delle prossime settimane avverrà proprio nello spirito di raccontare una storia. Non credo che condividere (anche) sui social, per uno scrittore, sia venire meno alla serietà della propria pratica, perché i social sono alcuni tra i mezzi che ci sono dati in questo momento storico per fare quello che facciamo: raccontare delle storie.
Condividere con i miei tempi e nei miei spazi. C’è chi è pessimo a rispondere ai messaggi, e chi è pessimo a non rispondere ai messaggi quando non ne ha tempo o voglia. Io purtroppo rientro nella seconda categoria, che immagino essere molto piccola, perché è più facile mettere se stessi davanti agli altri che il contrario — peccato che io non ne sia molto capace. Non è questo il luogo per approfondire questo argomento; per il momento, dico solo che nelle prossime sei settimane cercherò quanto più possibile di dare priorità alla scrittura, alle conversazioni con le persone che incontrerò lungo la strada e all’introspezione. Le messaggiate e le chiacchiere non urgenti verranno dopo. Non è egoismo — chi mi è vicino sa che nel momento del bisogno ci sono sempre — ma la verità è che questo progetto per me è lavoro, il mio nuovo lavoro da che Google mi ha messa in esubero il 20 gennaio 2023 dopo sei anni e mezzo di servizio. Questo progetto fa parte della strada che voglio intraprendere professionalmente, dopo mesi di riflessione, introspezione, preparazione. I meme su Instagram, per fare solo un esempio, non sono così importanti.
Lunga ma me stessa, sulla via della brevità. Scrivo tanto e scrivo lungo. Come si dice in inglese, se solo avessi dieci centesimi per ogni volta che mi hanno preso in giro o criticato per la lunghezza dei miei scritti… Ma voglio e devo imparare a prendere questa cosa con leggerezza. Sì, è vero, la concisione in scrittura è importante. Ma è importante anche essere se stessi. La sfida per me nelle prossime settimane è quella di non vergognarmi se scrivo lungo (preferisco dire “lungo” invece di “troppo”, che implica un tetto massimo oltre al quale non si può scrivere: un limite definito da chi?), cercando comunque di ambire a essere concisa quanto più possibile e soprattutto essendo sempre me stessa e fregandomene del giudizio altrui. Chi avrà voglia di leggermi, lo farà. “Troppo lungo”, in questo momento, non è un giudizio che mi aiuta (a meno che non provenga da Simona, la mia editor). Se volete condividere il vostro punto di vista di lettori sulla mia scrittura, preferisco che mi indichiate cosa trovate superfluo e di cosa potrei fare a meno, invece di dirmi che ho scritto troppo :-)
Alla prossima.
Quando ho detto al mio compagno americano che avrei visitato due diversi Bar Rossoblù, mi ha risposto: I didn’t know it was a chain!, non sapevo che fosse una catena! Macché catena — quelle le avete voi nel nuovo mondo — noi siamo gente semplice da bar di famiglia con le radici nel territorio :-)