Il patriarcato è la quotidianità dell'esperienza italiana
Riconoscerlo può aiutarci non solo a esemplificare cosa significa crescere femmina ed essere donna in Italia, ma anche a normalizzare l'assunzione di responsabilità da parte della società intera
È morta un’altra donna.
L’hanno ammazzata perché era femmina in Italia.
Si chiamava Giulia Cecchettin e aveva ventidue anni. L’esecutore materiale — il colpevole del femminicidio — è l’ex fidanzato Filippo Turetta, maschio italiano, ventidue anni anche lui. Il mandante — chi deve rispondere della responsabilità ultima del delitto — è l’inamovibile cultura maschio-centrica, maschilista e patriarcale del nostro paese.
Ad ammazzare Giulia per mano di Filippo è stata l’incapacità strutturale dell’Italia di allinearsi con valori fondamentali legati ai diritti, alla dignità e al rispetto delle donne.
L’apparente complessità di queste parole tradisce quella che invece è pura e semplice quotidianità dell’esperienza italiana. Non esiste nulla di più ordinario, di più consueto, di più dato per scontato in Italia della superiorità dell’uomo sulla donna. Il patriarcato è la fibra della nostra società. Non c’è nessun rito di iniziazione, nessuna decisione di entrare a far parte della società patriarcale: l’unica decisione che si può prendere è quella di uscirne, educandosi attivamente per acquisire consapevolezza di questa realtà, rivedendo il nostro sistema di valori e mettendo in discussione criticamente una serie di usi e costumi che sanciscono, ogni giorno, la superiorità dell’uomo sulla donna nel nostro paese.
Mettendo su famiglia, avete mai messo in dubbio che i vostri figli prendessero il cognome del padre, o glielo avete dato in maniera automatica, perché tanto è così che si fa e criticare questa pratica è un’esagerazione senza sostanza, dai, su, i veri problemi sono altri?
Avete mai pensato di riferirvi all’unità del vostro nucleo familiare (“i Rossi”, “la famiglia Rossi”) usando il cognome della madre?
A chi sono intestate la vostra casa, le vostre bollette, i vostri conti in banca? Avete mai discusso criticamente a chi spettasse la cura dei vostri figli, a chi toccasse lavorare part-time per andarli a prendere da scuola, chi dovesse preparare loro il pranzo, la merenda e la cena? Se questi compiti ricadono sulla madre, è avvenuto per automatismo, o perché dopo averci riflettuto in maniera critica, avete raggiunto la conclusione che questa è effettivamente, al netto delle aspettative della società, la maniera migliore per organizzare la vostra routine familiare?
Avete mai dato priorità alla carriera della moglie e madre invece di quella del marito e padre?
Se vi chiedessero chi in casa vostra è il “capofamiglia”, cosa rispondereste?
Se la fede cattolica è un valore importante per la vostra famiglia, avete mai spiegato ai vostri figli che l’obbligo di essere maschio per diventare prete o papa è del tutto arbitrario? Che l’idea che, secondo la dottrina cattolica, l’autorità divina passi attraverso delle figure di uomini non significa che gli uomini sono più speciali delle donne, ma che la storia ha ritenuto normale e addirittura giusto reprimere e annullare le donne? Che l’iconografia di Dio e di Gesù maschi, dei quattro evangelisti maschi, dei dodici apostoli maschi è frutto di questo stesso capriccio arbitrario della storia?
Se siete donna, vi siete mai chieste il perché e avete mai messo in dubbio la dicitura “coniugata [cognome di vostro marito]” sulla vostra carta d’identità, sulla vostra tessera elettorale?
Se siete uomo, lo sapete cosa significa crescere femmina in Italia? Lo sapete quanta sofferenza provoca in una ragazza adolescente il doversi adeguare a standard di bellezza, di abbigliamento, di trucco, di atteggiamento per piacere ai maschi, perché è piacere ai maschi che — ti viene comunicato molto presto nella vita — è la cosa più importante di tutte?
E soprattutto, proprio per questo, lo sapete quanta sofferenza provoca in una ragazza adolescente sentirsi di non riuscire a piacere ai maschi, di non essere ritenuta “scopabile” da quei maschi a cui piace la fi*a e per cui tutto gira intorno alla fi*a e il contrario di fi*a è povera sfigata, presa in giro, bullizzata nei corridoi della scuola?
Lo sapete come ci si sente quando tuo fratello minore ti rinfaccia che solo lui può portare avanti il cognome di famiglia dandolo ai figli, perché è un maschio, e tu no, perché sei una femmina?
Lo sapete che effetto fa quando la professoressa di italiano spiega alla tua classe di prima media che nella grammatica della nostra lingua il genere maschile vince sul femminile, suscitando ilarità, pernacchie e pugni alzati in segno di vittoria nei tuoi compagni maschi?
Lo sapete quanto brucia diventare grande all’interno di una società che ti ricorda, in continuazione, che per il solo fatto di essere femmina la tua posizione è su un gradino più in basso, avrai meno opportunità, ti spetteranno ruoli secondari?
Lo sapete cosa significa non sentirsi mai al sicuro camminando sola per strada, prendendo da sola il treno, sedendosi sola al banco di un bar?
Questa è l’ordinarietà di crescere femmina in Italia, questa è l’ordinarietà del patriarcato. Ed è questa ordinarietà che uccide le donne in Italia. La consuetudine di una cultura intera che quotidianamente esalta i maschi e schiaccia le femmine, una cultura che alcuni esprimono facendo le battute sulle donne al volante e la fi*a — e che altri invece esprimono violando la fi*a e ammazzando le donne. Che sia una battuta, che sia uno stupro, che sia un femminicidio, la radice culturale è la stessa ed è, lo ripeterò fino alla fine, quotidianità, non eccezione.
Filippo Turetta ha ucciso Giulia Cecchettin perché è un maschio italiano cresciuto in una quotidianità che deride, deprime e denigra le donne e nega loro dignità. Non ha dovuto fare nulla, Filippo, per risentire di questa quotidianità — gli è bastato vivere all’interno della nostra società. C’è chi si è stupito che un ragazzo il cui anno di nascita inizia per due sia stato capace di trasformarsi in femminicida, come se entrando nel nuovo millennio l’Italia si fosse magicamente spogliata di un certo tipo di cultura. Come se bastasse nascere in tempi moderni per sfuggire a un certo sistema di valori. Ma dove, ma come? Se l’idea che il patriarcato si annidi nell’ordinarietà della nostra esperienza è così astrusa per la maggior parte dei nostri connazionali — che preferiscono concepire questi fenomeni come altro da noi invece che parte di noi — come possiamo sperare che basti un ricambio generazionale per attuare una rivoluzione culturale? Chi aiuta le nuove generazioni a costruire un nuovo sistema di valori, se così poche persone si prendono la briga di mettere in discussione quello vecchio?
È per questo che è difficile mandare giù le dichiarazioni dei genitori di Filippo: non siamo una famiglia patriarcale, hanno detto ai microfoni dei giornalisti, non lo siamo mai stati. Non conosco la famiglia Turetta. Per quanto ne sappiamo, potrebbero davvero essere una delle rare, rarissime famiglie italiane che decostruiscono il patriarcato nella quotidianità della loro esistenza. Il fatto che il figlio si sia reso colpevole della morte di una donna non significa, di per sé — senza sapere nulla di più della storia di questa famiglia, perché possiamo essere arrabbiati, ma dobbiamo essere onesti — che papà e mamma Turetta non abbiano mai messo in discussione la superiorità del maschio sulla femmina in maniera critica e cosciente. È difficile crederlo, però, perché parole come “non siamo una famiglia patriarcale” suonano più come sinonimo di “non siamo una famiglia di mostri”, ovvero l’ennesima caduta nella fallacia logica di “mostrificare” chi uccide o stupra una donna, senza rendere conto della componente culturale alla radice di tali avvenimenti.
Non essere patriarcali non significa non essere mostri. Significa aver compiuto la scelta ben precisa di non partecipare alla quotidianità dell’esperienza italiana, rigettando un sistema di valori che pone l’uomo al di sopra della donna. Se la vostra famiglia non ha attivamente compiuto questa scelta, c’è caso che sia anch’essa una famiglia patriarcale. C’è caso che il 95% delle famiglie italiane siano famiglie patriarcali. La mia famiglia di origine è una famiglia patriarcale: un nucleo affettivo di professionisti istruiti che mi ha amato, nutrito, coccolato, mandato a scuola fino allo sfinimento, dato tutto quello che desideravo e lo ha fatto in un contesto patriarcale, a ulteriore dimostrazione che non serve essere brave persone, oneste e privilegiate, per sfuggire al sistema di valori patriarcali. Serve compiere determinate scelte.
La mancanza di coscienza collettiva sui valori di genere in Italia si manifesta proprio nell’incomprensione di questo concetto fondamentale: il patriarcato, il sessismo, la misoginia sono, purtroppo, pane quotidiano nella nostra cultura. Perciò spetta a tutti noi, nella mondanità e ordinarietà delle nostre scelte, contribuirne allo smantellamento. A tutti noi, a partire dal dettaglio più piccolo, come chiedersi perché la storia ha deciso che ai figli venisse trasmesso il cognome del padre.
Mi piace pensare che “quotidianizzare” la differenza che c’è tra l’essere femmina e l’essere maschio in Italia, con tutto ciò che ne consegue, non serva solo a semplificare i termini della questione affinché vengano più facilmente compresi. Può anche aiutare a normalizzare la scelta di prendersi le proprie responsabilità in merito. Ammettere che anche tu, sì proprio tu — italiano brava gente! — risenti di un sistema di valori patriarcali non è una dichiarazione di colpevolezza che fa di te un mostro, anzi! È una dichiarazione di responsabilità che fa di te un essere umano capace di aprire gli occhi sulla realtà, per intraprendere un percorso di crescita. E se l’assenza di coscienza sui valori di genere è un problema collettivo, significa che nessuno è solo lungo questo percorso di crescita.
Insieme, come collettività, abbiamo la possibilità di crescere e costruire un nuovo sistema di valori. Facciamolo.